La costituzione delle donne: quel che resta dell’avanguardia cilena

A cura di Alessia Vitale

 

L’esperimento del Cile

Pochi mesi fa il Cile è stato chiamato alle urne per decidere se approvare o meno la proposta di una nuova Costituzione.

Nonostante il referendum popolare abbia bocciato l’introduzione della nuova Costituzione, ciò che colpisce del “tentativo” di riforma del testo costituzionale è la prospettiva progressista che traspare dalla formulazione dei suoi articoli.

Per comprendere l’origine dell’attuale scenario dobbiamo tornare indietro di tre anni e risalire alla stagione delle proteste di piazza e degli sconvolgimenti sociali che iniziarono ad animare il Paese.

A gran voce i/le manifestanti chiedevano l’introduzione di una nuova Costituzione, in sostituzione di quella approvata nel 1980 e riformata nel 1989, durante la dittatura militare di Pinochet.

Il progetto del nuovo impianto costituzionale proposto ha preso le mosse da una prospettiva femminista, che non si limita a considerare solo le differenze di genere ma si espande fino a far proprie le rimostranze di tutt* gli/le “oppress*”.

Il femminismo cd. intersezionale voce, infatti, a tutte le categorie sociali “svantaggiate” che si trovano a dover combattere contro omofobia, classismo e razzismo, e le cui lotte si intersecano con quelle legate al genere.

Probabilmente, considerato il suo approccio innovativo, quello dei/delle progressist* cilen* verrà ricordato come il tentativo, benché fallito, più riuscito di affermare, a livello costituzionale, un principio di democrazia paritaria.

 

Così, infatti, recita la proposta di testo dell’art. 6:

<<Lo Stato promuove una società in cui donne, uomini, diversità e dissidenze sessuali e di genere partecipano a condizioni di sostanziale uguaglianza, riconoscendo che la loro effettiva rappresentanza è principio e condizione minima per il pieno e sostanziale esercizio della democrazia e della cittadinanza >>

 

Nel prosieguo viene espressamente sancito che, al fine di conseguire l’equilibrio della rappresentanza dei sessi, non solo nell’accesso alle cariche pubbliche, l’intero substrato legislativo (norme e servizi, politica fiscale e di bilancio) ed istituzionale dovranno essere ispirate ad un approccio di genere. La parità di genere assurge quindi al rango di diritto costituzionale, rappresentando il leit motiv di un processo di ristrutturazione legislativa e culturale che va a toccare diverse aree che incidono sulla partecipazione economica delle donne nel mondo del lavoro.

Nella proposta, infatti, non si parla solo di divario retributivo e di abolizione della disparità salariale ma, soprattutto, di attuarla anche negli spazi di gestione, sia a livello istituzionale che politico. 

Uno dei principi cui si ispira la proposta di testo è la prevenzione per l’eradicazione della violenza contro le donne, del dissenso e delle diversità di genere, in tutte le sue manifestazioni e ambiti.

La proposta di Costituzione tratta anche il tema dei diritti di domestici/domestiche e di assistenti familiari (cd. caregiver). Trova pieno riconoscimento il lavoro domestico e di cura, ritenuto «socialmente necessario alla vita in generale».

Tralasciando ulteriori aspetti legati alla partecipazione e all’incidenza delle donne nel panorama lavorativo ed economico, l’assemblea costituente ha voluto altresì provare a tutelare il diritto delle donne a vivere una vita libera dalla violenza, i diritti sessuali e riproduttivi, il diritto a un’educazione sessuale completa, il diritto di decidere liberamente, autonomamente e in modo informato sul proprio corpo, sull’esercizio della sessualità, sulla riproduzione, sul piacere e sulla contraccezione.

La spinta progressista ha impattato anche il regime normativo della famiglia, intesa quale società naturale fondata sul matrimonio. 

I profondi mutamenti del substrato sociale sono stati recepiti attraverso il pieno riconoscimento e la protezione statale di tutte le famiglie nelle loro varie forme, espressioni e modi di vita, non essendo limitate a legami esclusivamente filiali e consanguinei.

La carica innovatrice delle istanze proposte dall’assemblea costituente traspare anche nelle scelte lessicali adoperate. 

Molti degli articoli proposti iniziano con il femminile o adoperano termini neutrali rispetto al genere. Il linguaggio utilizzato è “inclusivo” e volutamente si è scelto di abbandonare un lessico libero da accezioni che riflettano opinioni pregiudizievoli, discriminatorie o stereotipate verso le minoranze.

La Costituzione italiana e i diritti delle donne

Anche la nostra Costituzione riconosce e tutela la donna sia come singolo essere umano, sia nell’ambito di tutte le formazioni sociali ove si svolge la sua personalità. 

Affinché ciò non resti confinato al rango di una mera statuizione di principio, oltre a sancire la perfetta uguaglianza tra donna e uomo, i nostri padri costituenti hanno altresì previsto un vero e proprio dovere della Repubblica di agire in modo da assicurare che questa uguaglianza venga in concreto attuata. 

L’impegno della Repubblica di promuovere le pari opportunità tra donne e uomini è sancito a livello costituzionale dall’art. 51.

Molteplici i pilastri su cui si erige l’impianto costituzionale della parità di genere, dall’accesso agli uffici pubblici, alla famiglia, al lavoro.

Il processo di emancipazione femminile che ha seguito il cambiamento culturale della società è stato supportato nel tempo dalla giurisprudenza costituzionale, che ha spianato la strada ad importanti interventi legislativi.

Se oggigiorno, infatti, l’accesso delle donne a tutte le cariche pubbliche non desta stupore, lo si deve alla legge del 9 febbraio 1963, n. 66 grazie alla quale le donne italiane hanno finalmente potuto accedere a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la magistratura, nei vari ruoli, carriere e categorie senza limitazioni di mansioni e di svolgimento della carriera.

Ciò che appare essere un dato ormai acquisito nella nostra società è stato in realtà il frutto di una battaglia combattuta in campo legislativo. Infatti, non tutti sanno che l’articolo 7 della legge n. 1176 del 1919 (poi dichiarato parzialmente illegittimo dalla sentenza n. 33 del 13 maggio 1960 della Consulta) escludeva le donne da tutti gli uffici pubblici che implicassero l’esercizio di diritti e di potestà. 

Al fine di tutelare la funzione essenziale svolta dalle lavoratrici madri in ambito familiare, il substrato valoriale posto dai padri costituenti alla base dell’impianto costituzionale è improntato alla tutela del diritto della donna lavoratrice di conseguire, a parità di lavoro, una pari retribuzione e di avere condizioni di lavoro che le consentano di adempiere la sua funzione all’interno della famiglia.

Sebbene l’Italia non abbia ancora varato riforme adeguate rispetto ai livelli di tutela apprestati da altri Stati, la regolamentazione giuridica della maternità ha subito nel corso degli anni alcune modifiche volte a garantire in concreto l’effettivo svolgimento del ruolo di entrambi i genitori nella cura e nell’assistenza della prole.

Inoltre, con la sentenza n. 286 del 2016, la Corte Costituzionale, recependo la giurisprudenza europea, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme che prevedevano l’attribuzione automatica al/alla figlio/figlia del solo cognome paterno. Pertanto, i neo genitori potranno decidere di attribuire al/alla figlio/figlia, di comune accordo, il doppio cognome – paterno e materno – al momento della nascita.

Infine, non possiamo non menzionare un altro importante diritto acquisito  e tutelato a livello costituzionale, ovvero il diritto al voto delle donne. La Carta Costituzionale ha finito col costituire un importante baluardo a garanzia del suffragio femminile, finalmente ottenuto nel 1946, dopo anni di proteste.

 

 

Cosa prevedono le Costituzioni  e le leggi di altri Paesi sui diritti delle donne?

Sebbene numerose legislazioni stiano attuando riforme nella giusta direzione, molte donne sono tuttora costrette a scontrarsi con leggi o regolamenti discriminanti a tutti i livelli della loro vita personale e professionale.

Infatti, come evidenziato dalla Banca Mondiale nel suo rapporto “Women, Business and the Law 2022” (che prende in considerazione il livello di riduzione delle differenze di genere tra Stati, analizzando leggi e regolamenti di 190 Paesi) la ricerca di un lavoro o l’avviamento di un’attività commerciale costituisce ancora un’impresa per molte. Lo scenario fotografato dal rapporto stilato dalla Banca Mondiale è quello di un substrato legislativo stagnante e poco incline a recepire i mutamenti dettati dalle variazioni del tessuto sociale, come del resto dimostrato dal fatto che ben cinquantasei Paesi non sono assolutamente cambiati in dieci anni.

Tra le aree che incidono sulla partecipazione economica delle donne nel mondo del lavoro i maggiori divari sono stati registrati nel campo della retribuzione e della genitorialità.

Dati alla mano, il report evidenzia che il Medio Oriente ed il Nord Africa hanno il punteggio più basso e molte sono le restrizioni che devono ancora essere rimosse. Nonostante ciò, il processo di emancipazione femminile è stato sorretto da ben 23 governi fautori di riforme legali volte a ridurre le discriminazioni ed introdurre diritti più equi. 

A fronte del 17% delle economie europee ed asiatiche (che hanno riportato  punteggi superiori rispetto alla media globale) circa il 25% di quelle del Medio Oriente e del Nord Africa ha attuato almeno una riforma a favore della parità di genere.

I principali settori interessati da alcune delle più importanti riforme a livello mondiale riguardano l’ambito pensionistico, la tutela della genitorialità e delle condizioni di lavoro. 

L’Ucraina e la Cambogia, ad esempio, hanno eguagliato l’età pensionabile di donne e uomini, garantendo prestazioni pensionistiche complete. L’Argentina ha contabilizzato i periodi di assenza dovuti all’assistenza all’infanzia nelle prestazioni pensionistiche. La Colombia è diventata il primo Paese dell’America Latina a introdurre il congedo parentale retribuito, con l’obiettivo di ridurre la discriminazione nei confronti delle donne sul posto di lavoro. 

Forti spinte verso l’eliminazione degli squilibri di genere provengono da Paesi che certamente non brillano all’interno delle classifiche mondiali per livello di tutela dei diritti umani. Il Burundi, ad esempio, ha imposto la parità di retribuzione per un lavoro di uguale valore. L’Angola ha promulgato una legge che criminalizza le molestie sessuali sul lavoro.

Al termine di quella che può apparire una “carrellata” di dati, numeri e percentuali sterili, ciò che emerge dal rapporto è che il raggiungimento della parità di genere va di pari passo all’evoluzione delle coscienze sociali.

Infatti, il persistente divario registrato tra la normativa e l’operatività giuridica, finisce col mettere a repentaglio anni di sforzi ed interventi legislativi che rischiano di non trovare un’effettiva attuazione. 

Ciò a riprova del fatto che bisogna partire da un ripensamento globale dei diversi fattori che incidono sul contesto sociale, compresi quelli culturali e religiosi.

Tornando al punto di partenza, quindi, cosa ci ha insegnato l’esperienza cilena?

Il tentativo di introdurre nel panorama legislativo una costituzione transfemminista ha generato un eco che, se ascoltato, potrebbe condurre ad una svolta radicale.

Non dimentichiamo che la Costituzione definisce le basi di una società e che il significato profondo delle scelte costituzionali deve riflettere una cultura di valori che siano in linea con l’attuale contesto sociale.

Pertanto, fin quando non verrà dato adeguato ascolto alle esigenze degli/delle oppress* ed inglobate nel tessuto costituzionale le istanze di cui sono portatori/portatrici, difficilmente quella forbice che distanzia la previsione normativa dalla sua attuazione verrà ridotta.

Fonti

 

 

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