Nessun* tocchi il corpo delle donne: diritto all’aborto e obiezione di (in)coscienza

A cura di Veronica Buonocore

 

Tutte le lotte passano attraverso il corpo delle donne, chiunque si arroga il diritto di possederlo.

Fateci caso, anche nella pluripremiata serie tv “Il Racconto dell’Ancella”, il primo gesto repressivo delle neo instaurata dittatura, e che ne diventa il simbolo stesso, è proprio quello di controllare la parte femminile della popolazione e il suo corpo, riducendo la donna a un mero involucro, il cui scopo è solo procreare.

I corpi femminili e il diritto all’autodeterminazione delle donne fanno ancora così paura che il diritto all’aborto o all’interruzione volontaria di gravidanza (IVG), conquistato in molti Paesi attraverso battaglie che sono costate il carcere e la vita a centinaia di donne, costrette per secoli a praticarlo clandestinamente, è incredibilmente sotto attacco.

Ecco cosa sta succedendo in Italia e nel resto del mondo.

Italia: diseguaglianze e difficoltà applicative della Legge n. 194/1978

Ti fanno sentire un’assassina” confessa tristemente F., trentatré anni, una laurea, un Master e uno stipendio da 500,00 Euro al mese.

Nell’Italia in cui troppo spesso non esiste sostegno per la maternità, deve ricorrere a un’interruzione volontaria di gravidanza. Una scelta già di per sé dolorosa, trasformata in un calvario.

Una volta venuta a conoscenza della gravidanza, F. si rivolge immediatamente a un consultorio familiare, nella speranza di trovare qualcun* che possa illustrarle i passi da compiere per portare a termine la propria decisione. Si ritrova invece catapultata in un’amara realtà, fatta di infinte attese, giudizi sputati in faccia con noncuranza e nessun sostegno psicologico. F. allora decide di rivolgersi autonomamente a un ospedale della propria città, Sassari, scoprendo tuttavia che soltanto 2 persone in tutta la struttura sono intenzionate a praticare l’aborto. Anche qui trova un ambiente ostile; numeros* medici/mediche e infermier* cercano di farle cambiare idea, consigliandole di aspettare qualche settimana, di ripensarci. Purtroppo, da questo punto di vista la Legge n. 194/1978 non aiuta, in quanto prevede in maniera paternalistica un tempo di attesa di 7 giorni in cui la donna viene invitata a riflettere (e se ci pensate il tutto è spiegato dal fatto che la legge è espressamente indicata come a tutela della maternità, non del diritto di scelta della donna).

Ma perché? – si domanda F. – Io sono convinta. […] Piango perché a trentatré anni, con laurea, Master ed esperienza all’estero, guadagno 500,00 Euro e lo Stato non da un centesimo a chi sceglie di fare un figlio da sola”.

Al quarto giorno dalla scoperta, F. riesce finalmente a firmare la liberatoria e, dopo essersi sottoposta a una serie di esami, riesce in completa solitudine a portare a termine l’IVG.

Ad oggi, F. non rimpiange la propria scelta.

Quel che la rattrista profondamente è l’aver affrontato questa “via crucis” in totale solitudine per via di un’assenza dello Stato, ipocrita nella difesa del diritto alla vita ma pronto a chinare il capo non appena si tratta di tutelare un diritto espressamente riconosciuto alla donna dalla Legge n. 194 del 1978.

Ma fino a che punto l’etica e la morale possono condizionare l’esercizio della professione medica e mettere a rischio l’applicazione di un diritto sancito dalla legge?

Appare essenziale innanzitutto ricordare che la Legge n. 194/1978 all’Articolo 9 riconosce espressamente il diritto all’obiezione di coscienza, prevedendo che: “Il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie non è tenuto a prendere parte alle procedure ed agli interventi per l’interruzione della gravidanza quando sollevi obiezione di coscienza, con preventiva dichiarazione”, che può essere revocata e non può essere invocata “quando il proprio intervento è indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo”.

A chiusura della disposizione vi è un inciso significativo, il quale specifica che

Gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenute in ogni caso ad assicurare che l’interruzione volontaria di gravidanza si possa svolgere”.

Il punto è di notevole importanza, in quanto sancisce chiaramente che l’obiezione deve riguardare il/la singol* medic* e non l’intera struttura ospedaliera, che non può dunque rifiutarsi “in blocco” di praticare aborti. “Le Regioni – prosegue la norma – devono controllare e garantire l’attuazione del diritto all’aborto anche attraverso la mobilità del personale”. La Legge 194 stabilisce quindi una gerarchia tra la coscienza del/della medic* e la necessità di garantire un servizio sanitario, e questa seconda esigenza è più importante e non può mai essere sacrificata.

In teoria.

Quello che accade in realtà, nella maggior parte dei casi, è un percorso di tortura e umiliazione.

Come denuncia un’altra testimonianza di una donna che preferisce rimanere anonima, pubblicata all’interno di un’inchiesta del settimanale “L’Espresso”, in cui ci viene raccontato che le donne che abortiscono

Vedono il figlio desiderato uscire dal loro corpo. Sole, spesso dentro un bagno, abbandonate. Ritrovate sopra una tazza del cesso mentre spingono il feto, perché un’ostetrica ha deciso che in sala parto non ci devono stare. C’è chi si rifiuta di praticare loro la terapia del dolore perché gli anestesisti obiettori di coscienza, per esempio nel Lazio, sono quasi la totalità. C’è chi invece inietta morfina quando ormai è troppo tardi. Sono costrette a risentire il battito prima del parto. A rimanere ricoverate per giorni perché l’unico medico non obiettore ha ormai terminato il turno e bisogna attendere che torni. E allora le culle intorno a loro si riempiono e sentono la gioia della nascita della compagna di stanza. Con le ostetriche, anch’esse obiettrici, che ti guardano con disprezzo”.

Nonostante i dati rivelino una diminuzione costante del numero degli aborti (-77,3% dal 1980 al 2018), analizzando in maniera più approfondita il quadro di riferimento complessivo ci si accorge immediatamente come la situazione sia disomogenea nelle varie aree del Paese, con picchi di obiettori/obiettrici fino al 90% in alcune regioni del Meridione e addirittura quasi del 100% in Molise, in cui dal 1 gennaio di quest’anno esiste una sola ginecologa non obiettrice, dopo il pensionamento di Michele Mariano, che aveva rinviato già due volte la propria decisione per difficoltà nel trovare sostitut*. L’allarme era stato lanciato mesi fa ma il concorso per l’assunzione di un/una medic* non obiettore/obiettrice è andato deserto.

Quello del Molise è un caso limite ma purtroppo non è l’unico.

In Italia ci sono almeno 20 strutture ospedaliere in cui non si pratica l’aborto e 22 ospedali in cui almeno una categoria tra ginecologi/ginecologhe, anestesist*, personale infermieristico e ospedaliero è obiettore/obiettrice di coscienza al 100%. 72 sono gli ospedali con personale obiettore tra l’80 e il 100%, 4 invece i consultori con il 100% di personale obiettore. Il tutto palesemente in contrasto con il dettato della Legge n. 194/1978, che non consente il diritto di obiezione ad intere strutture ospedaliere.

In alcune regioni, la situazione è talmente allarmante al punto che alcuni ospedali sono stati costretti a bandire concorsi riservati a ginecologi/ginecologhe non obiettori/obiettrici di coscienza. Esempio paradigmatico è rappresentato dal caso della regione Lazio, in cui il governatore Nicola Zingaretti nel novembre del 2015 aveva deciso di bandire un concorso per l’assunzione di sol* ginecologi/ginecologhe non obiettori/obiettrici di coscienza, suscitando un vespaio di polemiche proprio perché, qualora i/le medici/mediche assunt* avessero poi deciso di cambiare opinione e diventare obiettori/obiettrici, avrebbero rischiato il licenziamento o la mobilità.

È allarmante il fatto che la media dei/delle medici/mediche obiettori/obiettrici abbia ormai raggiunto la percentuale del 69% nel 2021, contro una media del 58,7% nel 2005.

Secondo la Libera associazione italiana ginecologi per l’applicazione della legge 194 (Laiga), l’Italia è tra gli ultimi Paesi in Europa per tutela della salute delle donne che vogliono abortire, con una media, appunto, del 69% di ginecologi/ginecologhe obiettori/obiettrici e 8 regioni in cui tale percentuale oscilla tra l’80% e il 90% (tra le altre, Abruzzo, Molise, Puglia, Basilicata e Sicilia). Percentuali che, secondo la Laiga, pongono l’Italia quasi ai livelli di Paesi in cui l’aborto è vietato e ben lontana da Paesi come la Francia, dove l’obiezione di coscienza si attesta intorno al 7%, il Regno Unito dove è al 10%, o i Paesi scandinavi, in cui l’obiezione di coscienza è addirittura vietata per legge.

Al di là dei meri dati numerici, a complicare ulteriormente la situazione è il fatto che i dati sugli/sulle obiettori/obiettrici non sono disponibili per singoli ospedali ma solamente in maniera aggregata per Regione, il che genera ulteriori difficoltà per le donne che vorrebbero abortire ma non sanno in concreto a quali strutture rivolgersi per poter esercitare il loro diritto, e si ritrovano spesso a dover sostenere una corsa contro il tempo, acuendo ulteriormente la propria sofferenza.

È quindi oltremodo evidente come il diritto delle donne a ricorrere all’aborto troppo spesso non sia assolutamente garantito nei fatti e, aspetto ancor più ingiusto, ove garantito, resti comunque fortemente condizionato da variabili quali il luogo di nascita e il contesto culturale o socio-economico in cui la donna si trova a crescere, con evidenti difficoltà soprattutto per le donne che vivono in situazioni di marginalità sociale. Il tutto in palese violazione dell’Articolo 3 della nostra Costituzione, che sancisce il diritto a un’eguaglianza non soltanto formale ma anche e soprattutto sostanziale, in cui i diritti devono essere accessibili per tutt* allo stesso modo.

Sul punto, è tragicamente illuminante l’esperienza di S. che, non essendo intenzionata a portare avanti una gravidanza, decide di optare per l’assunzione della pillola abortiva RU-486, soluzione più sicura e meno invasiva rispetto all’intervento chirurgico. Sin da subito però si manifestano i primi problemi in quanto, in tutta Roma, un solo ospedale somministra la pillola abortiva, e a sole 3 persone al giorno: non viene difficile parlare di impossibilità nei fatti dell’esercizio di un diritto! S. si reca così con il suo ragazzo al reparto dell’ospedale, collocato al piano seminterrato e in condizioni fatiscenti, con “tubi a vista, incrostazioni e infiltrazioni ovunque”, quasi a voler ricordare alle donne che, decidendo di togliere una vita, non dovrebbero certo aspettarsi un trattamento dignitoso e umano al pari di altr* pazienti. Dopo essere stata per diverse volte invitata a tornare a casa, a riflettere sulla propria scelta o a rivolgersi ad un diverso ufficio, finalmente l’intervento viene fissato nel limite dei 3 mesi per mancanza di posto. “Tanto non fa alcuna differenza”, osservano i/le medici/mediche, con una noncuranza che mette i brividi. S., per non aspettare, decide così di rivolgersi a un altro ospedale ma il più vicino, in cui poter trovare personale disposto a somministrare la pillola abortiva, si trova in provincia di Pisa, in un’altra regione.

E se non avessi avuto un uomo accanto, pronto ad accompagnarmi in Toscana? Se non avessi avuto un’auto, o i soldi per il treno e la benzina? Se fossi stata ignorante, o una straniera, che non conosce lingua e burocrazia? Se non avessi avuto una famiglia aperta, pronta a sostenermi in ogni caso?”.

Tutto questo si chiede ancora oggi S. che, a distanza di anni, porta dentro di sé il senso di colpa di una scelta difficile e l’onta della “lettera scarlatta” appiccicata sulla schiena, come tante altre donne.

 

[L’immagine ritrae la Giudice della Corte Suprema americana Ruth Bader Ginsburg, che ha lottato una vita per i diritti delle donne, incluso il diritto all’aborto]

 

Polonia: Dove si muore ancora di aborto

L’aborto è ormai un’eccezione nel cuore dell’Unione Europea, la Polonia governata dal partito cattolico e ultraconservatore Psi – Diritto e Giustizia, il cui obiettivo è quello di circoscrivere sempre più la possibilità di praticare l’interruzione volontaria di gravidanza.

Un terribile giro di giostra per un Paese che, sotto il regime comunista degli anni ’50 del XXI secolo, consentiva già di abortire semplicemente per motivi economici e accoglieva numerose donne dai Paesi vicini in cui vigevano leggi più restrittive.

A partire dal 2016, l’adozione di politiche sempre più repressive ha portato a poco più di un migliaio il numero di donne che ogni anno si sottopongono all’interruzione volontaria di gravidanza in Polonia ma, secondo alcune Ong, i dati reali oscillerebbero tra i 100 mila e i 200 mila casi all’anno, con un incremento esponenziale degli aborti clandestini.

Nonostante la mobilitazione di centinaia di migliaia di donne e uomini, che per settimane hanno organizzato scioperi e riempito le piazze, la situazione è ulteriormente peggiorata quando, a ottobre 2020, il Tribunale Costituzionale ha pronunciato un provvedimento ancora più restrittivo, che impone un divieto di aborto pressoché assoluto, consentendolo solo se il concepimento è il risultato di uno stupro o incesto, oppure quando la salute della madre è in pericolo, escludendo invece la possibilità di abortire in caso di malformazioni anche gravi del feto. Non è difficile immaginare le difficoltà applicative del provvedimento, in quanto spetta a un tribunale certificare se la gravidanza sia diretta conseguenza di un caso di stupro o violenza non consensuale, altrimenti la donna è costretta a portarla a termine. Chi trasgredisce la norma, che sia la paziente o il personale sanitario, rischia addirittura fino a 3 anni di carcere.

Conseguenze?!?

Il 97% delle richieste di aborto viene respinta.

A un anno dall’introduzione del provvedimento, solo 300 donne polacche hanno avuto accesso ai servizi per l’aborto negli ospedali a causa di una minaccia per la vita e la salute e la Ong “Aborto senza frontiere” ha aiutato 34.000 donne provenienti dalla Polonia ad accedere all’aborto in paesi limitrofi. Chi se lo può permettere, infatti, va ad abortire in Germania o nei Paesi Bassi, dove per aiutare le donne polacche è stata persino adottata una risoluzione ad hoc che permette loro di interrompere gratuitamente la gravidanza nel Paese, un’iniziativa che di solito si riserva in caso di crisi umanitarie.

Oppure le donne tornano a morire di aborto.

Come nel caso di Izabela, trentenne vittima di complicanze intervenute alla ventiduesima settimana di gravidanza. La giovane viene ricoverata in ospedale in condizioni critiche ma i/le medici/mediche, per timore di infrangere la legge e compiere un aborto illegale, decidono di non intervenire e di attendere il decesso spontaneo del feto. Una volta constatata la morte del feto, Izabela viene sottoposta a taglio cesareo ma, fortemente indebolita, non riesce a sopravvivere per le conseguenze dello shock settico.

Da un lato quindi il personale sanitario ha ignorato la minaccia per la salute della paziente e, dall’altro, temeva le conseguenze legate al compimento di un aborto illegale. In questo senso, Izabela può essere considerata la prima vittima della nuova legge sull’aborto in Polonia, che avrebbe potuto sopravvivere se i/le medici/mediche non avessero avuto paura delle responsabilità collegate alla modifica dell’indirizzo giuridico adottato dal Tribunale Costituzionale.

Fortunatamente a dicembre 2021, dopo giorni di proteste di piazza e il moto di indignazione internazionale, è stata bocciata dal Parlamento polacco un’ulteriore proposta di completa criminalizzazione dell’aborto, presentata dalle organizzazioni pro-vita, che avrebbe introdotto pene fino a 25 anni di carcere per le interruzioni di gravidanza (equiparando di fatto l’aborto all’omicidio) e 5 anni per gli aborti spontanei.

Tuttavia, dalla Camera Bassa del Parlamento è arrivato un primo via libera a un’altra proposta di stampo fascista, l’introduzione di un registro centralizzato delle gravidanze, denominato “Istituto familiare e demografico”, che obbligherebbe il personale sanitario a segnalare al Governo tutte le gravidanze e gli aborti spontanei. Il registro prevede altresì l’istituzione della figura di un “superprocuratore”, che avrebbe accesso ai dati sulle gravidanze delle donne polacche e il potere di non approvare i divorzi e perseguire le donne che decidono di interrompere la gravidanza, il tutto in spregio ai più elementari diritti civili.

Potranno sorvegliare le donne per capire se vogliono abortire o prendere la pillola del giorno dopo, perseguitare le famiglie arcobaleno, strappare i figli alle persone LGBTQ+, impedire divorzi. Stanno chiudendo il cerchio”,

ha commentato Marta Lempart, co-fondatrice del movimento per i diritti civili Strajk Kobiet, che per il suo attivismo rischia fino a 8 anni di carcere ed è stata costretta a lasciare la sua casa per le continue minacce ricevute.

Purtroppo, la battaglia delle donne polacche è appena cominciata.

[L’immagine ritrae un appendiabiti, simbolo della lotta contro gli aborti illegali. Molti aborti casalinghi, infatti, si praticavano proprio con l’aiuto di queste grucce]

 

Stati Uniti: Passi indietro e Fragilità di un diritto conquistato

I diritti, come la democrazia, sono una cosa fragile. Se non li curi, non te ne occupi – vale per le piante del mio terrazzo e per tante altre cose nella vita -, ti svegli un giorno e non ci sono più”.

Mai frase è più azzeccata di queste parole di Emma Bonino (da sempre in prima linea per affermare il diritto all’aborto e grazie al cui impegno è stata approvata in Italia la Legge n. 194/1978) per descrivere la situazione attuale in Texas, il secondo Stato più popoloso degli Stati Uniti, dove il 1 settembre del 2021 è entrata in vigore una legge estremamente repressiva e conservatrice, il cosiddetto “Heartbeat Act”, che vieta l’interruzione di gravidanza dopo che viene rilevato il battito cardiaco nell’utero, cosa che solitamente accade intorno alla sesta settimana di gravidanza, quando molte donne non sanno nemmeno di essere incinte.

E purtroppo non è la parte peggiore del provvedimento!

Pensate che non sono previste eccezioni al divieto, neppure in casi di incesto e stupro, e addirittura i/le cittadin* vengono incentivat*, come cacciatori/cacciatrici di taglie, a segnalare chi pratica gli aborti o accompagna nelle cliniche le pazienti per eseguire le interruzioni di gravidanza tramite premi in denaro fino a 10.000,00$, incitando così alla pubblica delazione e delegando a dei/delle comuni cittadin* il potere esecutivo dello Stato. Le donne possono non essere perseguite ma medici/mediche, membr* dello staff e infermier* e consiglier* dei centri di assistenza sì.

Di fatto, quindi, questa legge rende la gravidanza un reato, perché rischia di criminalizzare anche l’aborto spontaneo ed incrementa il pericolo di tornare al ricorso ad aborti clandestini, in particolare per le donne più povere, giovani, o sotto il controllo di coniugi o familiari violenti.

Dato che solo il 15% delle donne del Texas abortiscono nella fase iniziale della gravidanza – spesso non sapendo ancora di essere incinte – il restante 85%, da quando la legge è stata introdotta, è stata costretta a portare a termine gravidanze indesiderate o a spostarsi negli Stati vicini per praticare l’aborto, che hanno registrato picchi di richieste e in cui i tempi di attesa per interrompere una gravidanza sono aumentati esponenzialmente. Tuttavia, nonostante le proteste delle associazioni pro-aborto e dei medici/mediche, la Corte Suprema, interpellata sulla legittimità del provvedimento e a maggioranza conservatrice, lo scorso dicembre ne ha riconosciuto la costituzionalità, permettendo solamente ai/alle medici/mediche abortist* e alle cliniche di presentare ricorso contro la legge davanti alle corti federali.

Negli Stati Uniti l’aborto è legale a livello federale grazie alla storica sentenza “Roe v. Wade” del 1973 ma non c’è una legge unica che ne regoli le modalità in tutti gli Stati, che quindi legiferano in maniera indipendente.

Da decenni l’aborto è un tema al centro del dibattito politico americano, in particolare da quando il Partito Repubblicano ha deciso di appoggiare apertamente i movimenti anti-abortisti per assicurarsi i voti dell’elettorato religioso conservatore.

Risultato?!?

Dal 1973 ad oggi negli Stati Uniti sono state approvate circa 1300 leggi che cercano di ostacolare il ricorso all’interruzione volontaria di gravidanza, costringendo le donne a viaggiare anche migliaia di chilometri per trovare assistenza – in 5 Stati esiste solo una clinica pro-aborto e il 90% delle contee statunitensi non ha cliniche in grado di praticare un aborto – e negando loro di fatto l’accesso al diritto di aborto.

La strategia seguita in maniera subdola è quella di non proibire del tutto l’aborto ma di depotenziarlo progressivamente attraverso l’emanazione di norme sempre più costrittive e difficili da rispettare, come l’imposizione di requisiti burocratici di «salute e sicurezza», costosi ma non necessari, per poter abortire, oppure la negazione alle donne più povere di finanziamenti pubblici per sostenere l’intervento.

 

Il momento di agire è ora!

 È quanto mai impellente riaffermare con forza la possibilità di esercitare un diritto già compiutamente sancito dalla legge ma spesso calpestato e reso sterile nell’indifferenza dei molti.

Abbiamo il dovere di alzare la voce e lottare per difendere questo diritto, e soprattutto perché sia nei fatti accessibile a tutt*.

Non è un tema politico, come tant* vorrebbero farci credere.

È una questione di diritto, e quando un diritto viene negato è un dovere intervenire per porvi rimedio a tutela della salute e della libertà delle donne, che rappresentano più del 50% della popolazione mondiale.

Lo dobbiamo alle donne che tutt’oggi subiscono queste umiliazioni e a quelle che, nei secoli scorsi, hanno perso la vita e si sono sottoposte a indicibili torture fisiche per poterci garantire questo diritto, come ci racconta la scrittrice Annie Ernaux nel “L’evento”, il libro più interessante e vero che sia mai stato scritto sull’aborto. Impressionante è la lucidità con cui l’autrice ripercorre la storia del suo aborto clandestino, senza sentimentalismi o drammi di sorta, pesando ogni parola col contagocce. Rimane solo una scarna narrazione di un evento, un’esperienza totalizzante vissuta in solitudine con il proprio corpo, da lasciare alla memoria collettiva.

Che la clandestinità in cui ho vissuto quest’esperienza dell’aborto appartenga al passato non mi sembra un motivo valido per lasciarla sepolta. Tanto più che il paradosso di una legge giusta è quasi sempre quello di obbligare a tacere le vittime di un tempo, con la scusa che <<le cose sono cambiate>>. Ciò che è accaduto resta coperto dallo stesso silenzio di prima […] E se non andassi fino in fondo nel riferire questa esperienza contribuirei a oscurare la realtà delle donne, schierandomi dalla parte della dominazione maschile del mondo

 

Fonti:

L’Evento”, Annie Ernaux, L’Orma Editore, 2019

Aborto. Ma l’obiezione di coscienza ha (ancora) senso?”, Chiara Lalli, 7 Corriere della Sera, 2022

https://www.vanityfair.it/article/molise-dal-1-gennaio-aborto-impossibile#:~:text=Se%20non%20impossibile%2C%20certamente%20molto,medico%20non%20obiettore%20della%20Regione

https://espresso.repubblica.it/attualita/2020/09/2/news/vi-racconto-la-cicatrice-il-diritto-di-aborto-trasformato-in-tortura-in-nome-di-tutte-1.353490

Aborto in ospedale, un diritto. Il Ministero batta un colpo contro quel 100% di obiettori”, Roberto Saviano, 7 Corriere della Sera, 2022

https://www.agi.it/estero/news/2021-11-02/usa-esame-corte-suprema-legge-texas-aborto-14404073/#:~:text=La%20legge%20texana%20%2D%20il%20Senate,sanno%20nemmeno%20di%20essere%20incinte

https://www.repubblica.it/esteri/2021/10/22/news/texas_aborto_corte_suprema_stati_uniti-323387295/

https://www.rivistailmulino.it/a/nel-cuore-profondo-del-texas

https://www.internazionale.it/opinione/rebecca-solnit/2021/09/19/texas-aborto

L’Atalante delle Donne”, Joni Seager, Add Editore, 2020

Mettiamoci la Faccia”, Silvia Nucini, Vanity Fair del 10/11/2021

https://www.linkiesta.it/2021/11/izabela-vittima-legge-anti-aborto-polonia/

https://www.europarl.europa.eu/news/it/press-room/20211108IPR16844/polonia-non-una-donna-di-piu-deve-morire-a-causa-della-legge-sull-aborto

https://www.elle.com/it/magazine/women-in-society/a38437036/registro-gravidanze-polonia-aborti/

https://www.fanpage.it/attualita/perche-il-divieto-di-aborto-in-polonia-e-una-guerra-contro-tutte-le-donne/

Donne Difficili: Storia del Femminismo in 11 Battaglie”, Helen Lewis, Blackie Edizioni, 2021

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