Il bias dell’insicurezza: come ci condizionano le aspettative

Cosa è l’insicurezza e come ci condiziona

Ultimamente rifletto spesso sul peso delle aspettative, soprattutto sul modo in cui ci condizionano e come riescono a determinare la visione di noi stess* e del mondo che ci circonda. 

Tutti noi abbiamo provato la sensazione per la quale ci siamo sentiti condizionati delle aspettative nel nostro modo di agire, aspettative che a volte noi stess* generiamo per assecondare un nostro schema mentale rispetto al quale cerchiamo di dominare gli eventi della nostra vita, mentre in altri casi sono attribuzioni che altre persone fanno nei nostri confronti, quasi come se fossero una merce di scambio rispetto a qualcosa che è stato prestato da loro. Il genitore che si aspetta che il/la figli* si laurei in tempo perché gli/le ha pagato gli studi, il/la partner che si aspetta un rapporto di simbiosi nella vita quotidiana, e casi di questo genere ci caricano di un “peso” che puó influenzare il nostro comportamento e la visione che abbiamo di noi stess* e degli/delle altr*.

A volte sentiamo le cose ingigantirsi mentre noi stess* rimpiccioliamo, e ci chiudiamo in un involucro di protezione dove esiste solo quello che conosciamo e nel quale mettiamo in atto schemi e comportamenti consolidati. Questo accade per il timore che le cose potrebbero andare storte qualora ci lasciassimo la libertà di rischiare e provare ad andare contro l’aspettativa per la quale “le cose sono così e basta”. Rischieremmo così di sentirci ferit*, a causa di una potenziale perdita di affetti oppure della nostra autostima, perché il nostro ego, che spesso in gran parte guida la costruzione della nostra identità, sarebbe scalfito e non ci darebbe scampo alle autoaccuse e al giudizio sui nostri comportamenti.

Credo che in gran parte siano questi fenomeni a determinare la costruzione di quella che comunemente viene riconosciuta come insicurezza. Da un punto di vista di “effetto”, l’insicurezza non ci consente di comportarci secondo la nostra natura, essendo noi stess* e basta, perché ci pone nella condizione di non sentirci a nostro agio con le nostre possibilità e con gli effettivi strumenti che abbiamo per gestire la vita quotidiana. Alla base dell’insicurezza c’è una proiezione distorta della realtà, che ce la rende quasi ostile, di conseguenza il nostro modo di vivere assume i connotati di una lotta alla sopravvivenza che si manifesta nella forma di attacco oppure di rassegnazione.

Ognun* di noi ha conosciuto persone che manifestano un atteggiamento aggressivo oppure di passività e abbandono nei confronti della vita, se non di vittimismo.

Entrambi i modi di comportarsi sono sintomatici di una forma di “non accettazione”: non accettiamo di essere in un modo, ma diamo la colpa alle circostanze. 

Incorrere in questo schema mentale è semplice e da vita ad una catena di pregiudizi che rende l’intero sistema paradossale.

Perché l’insicurezza diventa un bias

Il paradosso di questa catena di pensiero è il fatto stesso di essere convint* di non potercela fare a gestire la vita con le sue complessità, indipendentemente dalla loro entità.

Io stessa ho provato spesso la sensazione di non essere dove avrei dovuto, perché a causa di idee precostituite pensavo che in quelle stesse circostanze avrei dovuto essere diversa, oppure che le stesse circostanze avrebbero dovuto essere diverse e favorevoli, in qualche modo, al mio essere. La verità è che quando ci scontriamo con il fatto che queste idee precostituite sono solo tali, cioè idee, la loro forza comincia a vacillare perché ci si rende conto del fatto che non esiste nessun motivo concreto che possa supportare una determinata versione della storia piuttosto che quella opposta.

Le cose sono come sono, le persone sono come sono. Ognun* è differente ed ha una molteplicità di esperienze ed una storia che l’o ha determinat*o e ha fatto sì che si sia trovat*o lì in quel momento della propria vita, che evidentemente era proprio quello in cui avrebbe dovuto essere.

E quindi non è scritto da nessuna parte che a trent’anni si debba avere una relazione stabile o si debba aver comprato una casa, men che meno che serva una laurea per accreditarsi al mondo e dimostrare chi si è davvero.

La dignità dell’essere dove si è esattamente come si è è tutta un’altra storia.

Generi a confronto quando si parla di insicurezza

Resto sempre colpita quando parlo con i miei coetanei di sesso maschile e dal senso di vulnerabilità che mi trasmettono nel raccontare le ansie che affrontano nelle loro relazioni amorose oppure nei loro contesti lavorativi. 

Anche le nostre controparti maschili vivono con grande stress il senso di aspettativa che la società ha nei loro confronti, che, in un mondo in cui i valori di genere ed i tradizionali stereotipi comportamentali sono in fase di profonda discussione, puó dare luogo ad una forte crisi di identità.

Uno degli stereotipi con cui gli uomini tipicamente devono confrontarsi è quello della virilità, da affermare sempre e comunque, e che non ammette sfumature, a costo di ricevere un giudizio impietoso da parte della propria cerchia sociale.

Il peso che ne consegue si traduce in una forte conflittualità interna ed in comportamenti che spesso possono essere associati all’evitamento o comunque al distacco, perché chiunque si chiude di fronte ad un sistema di relazioni che ci fa sentire “storti”, come se non funzionassimo e non andassimo bene per qualsiasi motivo. 

La conseguenza è proprio quella che gli uomini, dai quali ci si aspetterebbe una trasmissione di “forza” e “coraggio” in ogni gesto quotidiano, ci appaiono al contrario indeboliti, smarriti, alla ricerca di qualcosa o qualcuno che li indirizzi verso la retta via dell’inclusione sociale attraverso insegnamenti di virilità o attraverso la manifestazione di compassione che li faccia sentire accolti sempre e comunque.

Nel caso delle donne la questione diventa diversa

Quando mi confronto con le mie coetanee ho una sensazione molto diversa, anche se l’insicurezza rappresenta il file rouge che accomuna i generi femminile e maschile. Ma in questo caso si manifesta in una forma caratterizzata non tanto da un comportamento che tende all’evitare o al nascondersi, ma piuttosto che cerca di esporsi e di mettersi in gioco quasi andando oltre le aspettative spesse.

Uno degli stereotipi con il quale le donne devono misurarsi è infatti qualcosa che non ha a che fare con una caratteristica innata come nel caso degli uomini, per i quali la cosa più stressante di tutte è proprio il confronto con un ideale che per sua stessa natura è difficile che possa tradursi in realtà, ma piuttosto con un concetto che si autoalimenta attraverso il comportamento, ovvero il “fare sempre di più”: il perfezionismo.

Il perfezionismo in questo caso non è un ideale, la parola stessa richiama un’attitudine che si alimenta attraverso il nostro agire e che ha delle potenzialità infinite di realizzazione nella realtà fattuale. Il perfezionismo ci guida verso questo orizzonte dell’infinito e oltre, di cui non vediamo mai la fine ed in cui la nostra corsa è guidata dal “sempre di più”.

Ma il “sempre di più” riletto al contrario suona come un “non è mai abbastanza”. Si capisce come le conseguenze di questa lettura possano essere logoranti nel lungo periodo, perché si traducono in comportamenti disfunzionali in cui la soglia di percezione di quello che è giusto per se stess* e coerente con i propri bisogni è stravolto e messo quasi a tacere per cercare di tendere il più possibile verso quella dimensione irrealizzabile di perfezione.

Le donne pagano particolarmente il prezzo per assecondare questo stereotipo. Questo è intuibile dal fatto che nel nostro caso il numero di richieste che la società ci fa è accresciuto in modo esponenziale negli ultimi anni, perché oltre alle mansioni che “tradizionalmente” ci competono, che risultano legate ancora ad una visione che vede il ruolo femminile come quello principale nella realizzazione di una famiglia, con le responsabilità che ne conseguono, si è aggiunta anche la realizzazione nella sfera professionale attraverso le proprie performance, che devono essere per forza guidate dal “non è mai abbastanza” per poter essere riconosciute.

In che senso tutto questo ci porta verso l’insicurezza?

Come accade per gli uomini, le donne sviluppano un senso di insicurezza che si definisce come una paura di non essere all’altezza delle aspettative,  e che le guida spesso a comportarsi come se fossero esenti da colpi alla propria autostima, manifestando al di fuori atteggiamenti grintosi ed energici per mascherare la paura e soprattutto per mostrare di “essere abbastanza”.

Ma il bias si trova proprio qui, in questo “essere abbastanza”, che spesso facciamo fatica ad accettare, perché l’essere quello che siamo non è idoneo rispetto a degli standard che la società ci ha comunicato e che noi abbiamo fatto nostri.

Cosa accadrebbe se di colpo lasciassimo andare le aspettative che noi ed il nostro contesto sociale che abbiamo costruito? Probabilmente dovremmo misurarci con la verità, che è sempre nostra, sempre soggettiva. 

Dovremmo ammettere che anche se abbiamo inseguito per anni un ideale che ci ha guidato a cercare nella nostra vita certi valori, in realtà siamo sensibili ad altri, molto diversi. Dovremmo ammettere che il cambiamento è sempre possibile in ogni fase della nostra vita, ma soprattutto, che tale cambiamento dipende solo da noi e non da quello che ci dicono gli/le altr*.

In conclusione

Questa riflessione non incontra ostacoli rispetto ai generi e le età, ma non posso fare a meno di rivolgermi ai miei coetanei e coetanee, perché penso che i/le ragazz* della nostra generazione (i millennials, per intenderci) siano particolarmente sensibili a questo concetto di insicurezza. Loro sono la mia fonte di ispirazione quotidiana in questa lotta costante nella ricerca di me stessa, verso la verità, nel tentativo di liberarsi dai pesi e di sconfiggere le opinioni dominanti.

In questa lotta verso la “liberazione” dalle pressioni sociali che tendono ad incasellarci in una funzione, attribuendoci spesso ruoli che sarebbe bene si addicessero a noi, in quanto persone di una certa età, appartenenti ad una certa famiglia, con una certa funzione lavorativa, di una certa cultura, i confini di genere decadono e risultiamo tutt* unit* nella ricerca del nostro posto nel mondo dove poter avere la libertà di esprimerci e di ricostruire una cultura di genere più fluida e rispettosa delle individualità, astraendoci dalla storia e dal nostro passato.

Per quanto difficile e persino dolorosa possa essere questa lotta, credo che essa sia la vera essenza della ricerca della verità di ognun* di noi, che significa scavare, togliere strati superficiali, fino ad arrivare alla serenità dell’essere chi si è indipendentemente dal come, dove e perché lo si è.

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